Sicurezza, Forze dell’Ordine e Giustizia tra legge scritta e realtà dei fatti

Sicurezza, Forze dell’Ordine e Giustizia: tra legge scritta e realtà dei fatti che accadono.
Noi di Youfoggia.com, da sempre attenti alla sicurezza dei cittadini e alla tutela di chi rischia la vita per garantirla, vogliamo condividere alcune riflessioni – frutto di un confronto con un magistrato e un avvocato penalista e un avvocato civilista con profonda conoscenza della materia, su un tema che riguarda da vicino le Forze dell’Ordine, la giustizia penale e la percezione della legalità operativa in Italia.

Per ragioni di sicurezza, non pubblichiamo i nomi dei due primi professionisti coinvolti: le loro opinioni sono preziose, ma l’esposizione mediatica li renderebbe facili bersagli di critiche ideologiche o persino minacce, in un clima che purtroppo spesso non premia la trasparenza.

L’obbligatorietà dell’azione penale: un principio… solo teorico?
La Costituzione italiana, all’art. 112, stabilisce che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Significa che ogni qualvolta viene a conoscenza di un reato, deve attivarsi per indagare e, se vi sono elementi sufficienti, chiedere il rinvio a giudizio.

Tuttavia, come ci è stato spiegato, questo principio è spesso più teorico che pratico. Nella realtà quotidiana, i magistrati esercitano una forma di discrezionalità – legittima e comprensibile – decidendo quali reati perseguire con maggiore priorità. È evidente: risorse umane limitate e un carico enorme di procedimenti rendono impossibile perseguire ogni fatto penalmente rilevante con lo stesso impegno.

Questa selezione implicita non è di per sé colpevole, ma solleva un interrogativo importante: il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è ancora realmente rispettato o ormai svuotato di significato?

Forze dell’Ordine indagate: cosa accade quando si agisce per dovere?
Il tema diventa ancora più delicato quando riguarda gli appartenenti alle Forze di Polizia. È frequente leggere notizie in cui un poliziotto o un carabiniere, intervenuto in un contesto pericoloso, viene indagato per eccesso colposo nell’uso delle armi.

Eppure, in molti casi, gli operatori agiscono in presenza di una causa di giustificazione prevista dalla legge: l’adempimento di un dovere, la legittima difesa, o l’uso legittimo delle armi. In questi casi, pur trattandosi formalmente di un fatto che integra una fattispecie di reato, la legge ne esclude la punibilità, perché il comportamento è considerato lecito.

La normativa prevede che, accertata la presenza di una causa di giustificazione, il Pubblico Ministero debba chiedere l’archiviazione immediata del procedimento. Ma nella pratica, questo spesso non avviene.

Anzi, talvolta l’impressione è che vi sia un rigore eccessivo proprio nei confronti di chi agisce per tutelare la collettività, come se sull’operato degli agenti pendesse una presunzione di colpevolezza.

Il caso emblematico: indagini sproporzionate e danni personali.
Emblematico il caso in cui due poliziotti, oggetto di indagine per eccesso colposo nell’uso delle armi, si sono visti costretti a difendersi legalmente dopo un intervento in cui erano stati aggrediti da criminali armati.

La ricostruzione, purtroppo frequente, è paradossale: l’agente interviene sotto minaccia, risponde al fuoco, neutralizza il pericolo, ma finisce indagato perché “avrebbe potuto sparare meno”, come se l’alternativa fosse ferire con precisione chirurgica chi sta tentando di ucciderti.

Il risultato? Oltre al rischio fisico affrontato, l’operatore deve sostenere spese legali personali, resta bloccato professionalmente durante l’indagine, e subisce un danno morale e psicologico enorme.

Una cultura del sospetto verso chi protegge
Questo clima nasce da anni di campagne denigratorie contro le Forze dell’Ordine, promosse da precisi ambienti politici e culturali. Per evitare ripercussioni legali, non ne indichiamo l’identità, ma i fatti sono sotto gli occhi di tutti.

Molti magistrati, come noto, hanno orientamenti politici noti, e questo può influenzare – anche inconsciamente – l’atteggiamento verso determinati casi. Il risultato è che molti agenti oggi esitano ad agire, per il timore di ritorsioni giudiziarie e mediatiche.

E questo non è un problema solo per loro, ma per tutti noi: meno sicurezza per i cittadini, maggiore spazio per chi delinque.

Le nuove tutele per gli operatori: un passo avanti.
Proprio per questo, il Governo in carica ha introdotto misure di sostegno, tra cui il rimborso delle spese legali per gli appartenenti alle Forze dell’Ordine coinvolti in procedimenti giudiziari per fatti avvenuti in servizio.

Si tratta di un atto dovuto e di giustizia, che speriamo non venga strumentalizzato per fini ideologici o di polemica politica.

A ciò va aggiunto, secondo un avvocato civilista l’avv.Vincenzo De Michele, da sempre vicino ai temi delle garanzie nei confronti di chi è indagato di ipotesi di reato che possano avere implicazioni sul piano civile o disciplinare del rapporto di impiego, che c’è una tendenza, quasi inspiegabile, a non applicare la legislazione sulla presunzione di innocenza che porta oggi al divieto di pubblicazione delle ordinanze del GIP con misure cautelari personali e che, a maggior ragione, dovrebbe impedire la divulgazione da parte degli inquirenti della mera comunicazione di aver notificato un avviso di garanzia ad un poliziotto o ad un carabiniere per presunto eccesso di legittima difesa.

Equilibrio e rispetto per chi serve lo Stato.
Questo articolo non vuole alimentare polemiche, ma offrire uno spunto di riflessione costruttivo. Il rispetto delle garanzie è sacrosanto, ma chi rischia la vita ogni giorno per la sicurezza collettiva merita tutela, non sospetto.

Il diritto deve proteggere tutti, anche chi indossa una divisa.

YouFoggia.com continuerà a monitorare questi temi con attenzione, raccogliendo testimonianze, offrendo voce ai protagonisti e contribuendo, nei limiti del nostro ruolo, a costruire una società più sicura e più giusta per tutti.

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