Mafiosi con reddito di cittadinanza, indagati in 109 tra Bari e la Bat

Capi clan  e familiari  percepivano un beneficio beneficio che doveva andare a bisognosi, ben900mila euro. Sequestrato sia il denaro.

Un conflitto tra il boss Antonio Di Cosola, morto anni fa e lo sfidante del clan Palermiti di Japigia e l’uomo di fiducia del clan Cannito Lattanzio di Barletta tra i 109 che, secondo la guardia di finanza, negli ultimi anni hanno percepito indebitamente il reddito di cittadinanza. Un’operazione del Nucleo Polizia economico-finanziaria di Bari su larga scala, una  indagine,che ha portato all’emersione un fenomeno diffuso e radicato nel barese e nella Bat.

Il tutto ai danni dello stato e di quelle persone che ne necessitano realmente. Questo tipo evento si innesta sulla scia di uno stile di vita, da parte delle famiglie che vuol  sembrare,  all’opinione pubblica, normale danneggiando e truffando lo stato. I finanzieri del nucleo specializzato, d’iniziativa, hanno così scoperto ben  109 soggetti che, in virtù di una condanna definitiva per associazione mafiosa o per reati commessi con il metodo mafioso o finalità mafiose (da loro o da componenti il nucleo familiare), negli ultimi dieci anni, non ne avevano diritto.
Tra questi, 37 sono i diretti destinatari delle condanne definitive, 72 sono i parenti che contano, all’interno del loro nucleo familiare, un parente destinatario di condanna definitiva per mafia.

Il metodo seguito è frutti di una attenta valutazione, che ha portao a seguire una linea una strategia investigativa, individuare prima i soggetti gravati da sentenza di condanna definitiva per reati mafiosi. I dati così acquisiti sono stati incrociati con le banche dati in dotazione alla guardia di finanza, per poi acquisire la documentazione prodotta dai richiedenti il reddito, inoltre chiedere  collaborazione alle diverse direzioni provinciali dell’Inps.

Da tutto cio’ si sono evidenziate le seguenti risultanze, che hanno portato alla fuori uscita della punta dell’iceberg di un sistema collaudato da quando, nel marzo 2019, è entrato in vigore il decreto legge che regolamentava l’istituzione del reddito di cittadinanza.Con il coordinamento  delle procure di Bari e Trani, nelle quali sono poi stati aperti i 109 fascicoli, il Nucleo della Guardia di Finanza ha continuato a indagare, accertando che avrebbero percepito illecitamente il beneficio economico per un ammontare complessivo di oltre 900 mila euro.

Immediatamente è stato già disposto il sequestro di disponibilità finanziarie, provento del reato, che non erano piu’ 900 ma molto meno,perche spesi,nonché delle “carte postamat RDC” utilizzate per prelevare il sussidio. Si calcola che, da marzo 2019 ad oggi, le cifre percepite si attestino su una forbice compresa fra un minimo di 2000 euro e un massimo di 28 mila.

Tra i 109, dunque, ci sono numerosi nomi.

Tra cui Antonio Battista, al secondo gradino del clan Di Cosola, condannato all’ergastolo per essere considerato il mandante dell’omicidio di Giuseppe Mizzi, vittima innocente della mafia, ucciso per errore il 16 marzo 2011, perché scambiato per uno spacciatore del clan Strisciuglio. Battista, dopo essere stato ferito, aveva ordinato ai suoi uomini di rispondere all’agguato subìto uccidendo un uomo, “il primo che trovate”, del clan rivale.

Ma non c’è solo lui a rappresentare la crème della mafia nell’elenco dei truffatori del reddito di cittadinanza,c’è anche Antonio Busco, mente di un attacco al potere al clan del quartiere Japigia, i Palermiti, reggenti sulla zona al posto del boss Savino Parisi. Busco e i suoi uomini tentarono, a suon di proiettili, di acquisire il controllo delle attività illecite nella zona , ma la scalata al potere fu bloccata dagli uomini del clan Palermiti, che riuscirono anche ad allontanare l’intera famiglia Busco dal rione.

Per completare , Antonio e Michele Matteucci, entrambi condannati in via definitiva per associazione mafiosa e appartenenti al clan Cannito-Lattanzio, influente su tutta la Bat. Michele, in particolare, è stato condannato anche per tentato omicidio.

Gli esiti dell’indagine sono stati comunicati all’Inps che ha provveduto a far decadere o a revocare il sussidio (a seconda dei casi) e a recuperare le somme finora stanziate.

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